Dalla bonifica integrale alla bonifica della crosta urbana

Da quando è diventata capitale, Roma ha sempre avuto una visione sistemica del proprio territorio. È una tipicità della cultura tecnica, economica e sociale della prima metà del Novecento quando si produssero significativi esperimenti di bonifica integrale con interventi idraulici, civili, urbanistici, socio-educativi e igienicosanitari di grande spessore. Un filone utopico che è stato colpevolmente rimosso dalla memoria storica. Poi, nel secondo Dopoguerra, dopo una breve ripresa dell’idea di bonifica con la riforma agraria (che riguardò anche una porzione di Agro romano), si passò a una visione urbanocentrica, caratterizzata dalla separazione e frammentazione delle funzioni urbane e dalla riduzione delle aree agricole, di fatto, a un ruolo di mera riserva in attesa di essere edificate. E così da una visione integrata del paesaggio agrario − nel senso che a esso dava Emilio Sereni come “forma impressa dall’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, al paesaggio naturale” − si è passati a una visione meramente naturalistica del paesaggio. E tale cambio di ottica ha prodotto una sorta di divisione del lavoro (un perenne e infruttuoso armistizio!) tra chi pianifica e realizza i quartieri e i servizi a questi connessi e chi gestisce le aree agricole sempre più residuali, a partire dalle aree protette. L’idea di bonifica integrale oggi va spogliata dei caratteri dirigistici e pianificatori del passato e declinata come bonifica della crosta urbana.

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